Descrizione
1
Yakov
Un boschetto di betulle sulle rive di un fiume presso lo Xi Miute, un mattino d’estate
Non voglio perderla.
Il cavallo appare e scompare tra le betulle.
Posso inseguirla solo con gli occhi.
Gli occhi sono mani, mani che si tendono, cercano di afferrare qualcosa che fugge via per sempre.
La vita, un lampo di luce, una confusa intermittenza di ricordi e immagini, quel niente che abbiamo vissuto insieme.
Bianchi e snelli i tronchi, la corteccia come scorza di pelle indurita. Sembrano gli stessi corpi arborei che abbracciavo dodici inverni fa: non qui vicino al mare, ma nel nostro bosco sacro, lontano sulle montagne. Allora penetrai nella sua parte più segreta, incurante del divieto. No, non ce la facevo ad aspettare fuori, con gli altri uomini e i cavalli. Da ore nella valle echeggiavano le grida straziate di mia moglie, e mi riempivano di un senso di angoscia mai provato prima. Un miracolo terribile stava per compiersi.
Le mani aggrappate a una betulla, guardavo laggiù nella radura. Al centro del pianoro il grande noce, spogliato dai venti autunnali, i rami verso il cielo. Braccia in atto d’offrire un sacrificio. Le radici antiche si torcevano tra le rocce, dove scaturiva una sorgente d’acqua purissima. Tra le radici e il tronco, una rozza croce di legno. Con mia moglie c’era solo la levatrice, la mamiku, che si muoveva veloce tra la donna e la fonte, cambiando i panni rossi di sangue e lavandoli nell’acqua. Lei era distesa sulla schiena, su uno strato di paglia sparsa a terra. Lanciava grida altissime, si irrigidiva, contraeva le braccia e le gambe, arrovesciava la testa all’indietro.
Fino a un giorno prima, e per le lunghe lune precedenti, nella nostra grande casa al centro del villaggio avevamo seguito tutti i consigli della mamiku e delle donne più anziane. Doveva essere il nostro primo figlio: il primogenito di psì Yakov, del nobile Yakov, cantavano le donne, il fanciullo destinato a essere un eroe come quelli delle saghe dei Nart, e a guidare il clan con forza e con coraggio. Sarebbe nato nell’Anno del Cavallo, l’animale più nobile e venerato dalla nostra gente.
Mia moglie evitava di uscire dopo il tramonto, di sedersi su una cassa o una pietra, di uccidere serpenti, di bere acqua da coppe larghe. Badava con cura al fuoco che ardeva nel cuore della casa, affinché non si spegnesse mai. Ma nonostante tutto, continuava a indebolirsi in quella gravidanza difficile. Aveva avuto frequenti perdite di sangue, e le donne temevano che qualche demone avesse preso di mira lei e il bambino: forse era la crudele Almasti a essere assetata del loro sangue. Qualcuna diceva di averla vista aggirarsi presso la casa, all’imbrunire, una vecchia nuda con i capelli sciolti. Per allontanarla tenevano acceso sulla porta un fuoco purificatore per tutta la notte, e avevano messo sotto il cuscino e il pagliericcio i più svariati oggetti di metallo, alcuni amuleti, un paio di forbici e un coltello. Per il parto era già pronta una capanna di paglia fuori dal villaggio, vicino al corso rumoroso del fiume.
La fine del tempo giunse ad autunno ormai inoltrato. I giorni erano ancora miti, ma gli anziani avvertivano che presto avrebbe cominciato a soffiare il vento gelido che scendeva dal Paese delle Tenebre, e tutto sarebbe diventato bianco e silente, sepolto sotto l’alto mantello di neve. Quasi senza forze, pallida, lei aveva insistito perché la portassimo subito nel bosco sacro, sotto il noce. Diceva che aveva bisogno dell’energia dell’acqua e della roccia, della linfa e della forza del grande albero. Era stata irremovibile, e nonostante le sue condizioni l’avevamo portata su una lettiga, accompagnata dalla sola mamiku. Eravamo partiti all’alba. Il cielo era sgombro di nubi, e l’aria immota ma fredda. Nel bosco sacro erano entrate solo le donne con i portatori, e questi erano subito tornati indietro, dopo aver preparato un giaciglio di paglia sulla terra umida. Io e gli altri uomini, scesi dalle cavalcature, eravamo tutti fermi al limitare. Nessun maschio poteva restare. Quel che accadeva laggiù lo scorgevamo solo in modo confuso. La mamiku aveva iniziato strani rituali per favorire l’espulsione del feto, aprendo e sciogliendo misteriosi oggetti intrecciati e annodati tra loro, e invocando l’acqua e il vento.
Un grido più alto mi gelò. Lei si inarcò violentemente su se stessa, ricadde, non si mosse più. Ero sconvolto. Da lontano non riuscivo più a vedere bene, non capivo cosa stesse accadendo. Non scorgevo più mia moglie, coperta dalla mamiku piegata tra le sue gambe. E poi, improvvisamente, un altro grido, flebile ma netto e acuto, e la mamiku faceva alcuni rapidi gesti impugnando quello che sembrava un coltello, e si lanciava verso la sorgente con una piccola cosa insanguinata, e la immergeva più volte nell’acqua gelida, e ogni volta si ripeteva quello strillo acuto, e la cosa non era più rossa di sangue.
Mi lanciai di corsa verso la radura. Vidi il terrore negli occhi umidi della mamiku tremante, terrore per quel che s’era appena compiuto, ma forse ancor più per il mio sacrilegio, per aver voluto vedere ciò che non deve essere visto da occhi di maschio. Vidi per terra mia moglie bianca come la neve, la bocca aperta, gli occhi senza vita aperti al cielo azzurro, il sangue scuro sul sesso squarciato, sulle gambe aperte, sulla paglia, sulla terra. Il suo sangue Almasti se l’è bevuto, diceva con parole rotte e confuse la mamiku, ma ora che scende nella terra e risale dalle radici nella linfa del grande noce è sangue sacro. Sangue per sangue, vita per vita. E fu allora che la vidi per la prima volta. I grandi occhi erano aperti, chiari, profondi. Mi sembrarono gli stessi occhi della madre, ed ebbi la sensazione che guardassero me che le tendevo le mani.
La rividi solo al mio ritorno, dopo sei inverni.
Sepolta la moglie nel tumulo di famiglia, sotto le grandi lastre di pietra della casa dei morti, avevo affidato la bambina di pochi giorni alla nonna e alla balia, una schiava rus di nome Irina.
Sulla terra era scesa l’oscurità. La tenebra del male e del dolore. Sibilava il vento del nord, e scendeva la neve. Raccolte le armi, adunati i guerrieri del clan, ero partito senza voltarmi indietro. Fino ad allora, nell’attesa della nascita del primogenito, avevo lasciato senza risposta l’invito di warq Inal Nexw, il principe Inal il Grande con un occhio solo, figlio di Xwrifelhey figlio di Abdun-Khan, che chiedeva ai capi e ai nobili del nostro popolo fiero e indipendente sparso sulle montagne e nelle valli di unirsi in una lotta comune. Ma dopo lo avevo seguito con determinazione cieca, gettandomi con ferocia nei combattimenti, come se cercassi di ottenere per me stesso la consolazione della morte che invece davo al mio nemico. Agli altri guerrieri il mio sembrava coraggio, eroico e disumano. In realtà era disperato desiderio di morte.
Quando tornai al villaggio, ero molto cambiato. Il mio viso era indurito da rughe e cicatrici, solo in parte nascoste dalla barba e dai lunghi capelli biondi. Lo sguardo era triste, e gli occhi sembravano riflettere ancora i bagliori delle fiamme e lo scorrere del sangue. Non m’importava più nulla della vita o della morte. Nella testa e nel cuore non c’era niente.
Arrivai al villaggio, inaspettato, la vigilia della festa del Capodanno, alla fine dell’inverno. Cavalcavo con pochi compagni, i pochi che erano ancora vivi. Seguiva la nostra schiera un piccolo carro, guidato da un piccolo uomo vestito di scuro. Sotto il burka, il mantello di feltro e la maglia corazzata, indossavo la ruvida camicia di fustagno tessuta a tre licci, senza collare, piegata a falde sotto il cinturone, i calzoni larghi infilati negli alti stivali. A tracolla un lungo arco con la faretra, e infilata nel fodero la shashka, il lungo coltello ricurvo e leggero, flessibile e micidiale come un serpente, con l’impugnatura a uncino ricoperta da un niello d’argento che sembrava una testa d’aquila.
Mi tolsi l’elmo a punta con i guanciali, e scossi la testa sciogliendo al vento i capelli biondi. Avanzavo lentamente, scendendo verso la valle dopo l’ultima curva della collina. Mentre mi avvicinavo alle prime case, vedevo le donne, gli anziani, i bambini che cominciavano a raggrupparsi silenziosi ai lati della strada, cercando di distinguere nelle figure disfatte dei cavalieri le fattezze di una persona amata, un marito, un figlio, un padre.
Mi fermai davanti alla mia casa al centro del villaggio, quella wuna diversa dalle altre solo perché un po’ più grande, ma uguale per struttura, intrecciata di canne, rami e paglia. Nulla era cambiato. Dietro c’erano le stesse staccionate che avevo alzato io nell’estate della gravidanza della moglie, le stalle, la
stanza separata per gli ospiti, i recinti per gli animali, il campo e gli alberi da frutto che ora si preparavano di nuovo alla primavera.
Sotto il porticato, isolata dai servi e dai domestici, riconobbi la figura sottile di mia madre, impassibile come una statua, e accanto a lei la serva Irina, che teneva per mano una bambina di cinque o sei inverni. Doveva essere lei: mia figlia, dagli occhi azzurri e i lunghi capelli biondi. Quegli occhi mi fissavano, emozionati ma senza lacrime, asciutti come gli occhi della nonna, come gli occhi di Irina, come gli occhi di tutti in quello spiazzo e in quel momento, perché le lacrime da noi sono segno di debolezza.
Scesi da cavallo, abbracciai mia madre, guardai con riconoscenza Irina, e mi abbassai verso la bambina, che non mi aveva mai visto. Dovevo sembrarle uno sconosciuto, e solo allora mi resi conto del mio aspetto, che poteva incutere soltanto paura. Io non sapevo sorridere: non ho mai sorriso in vita mia. Non sapevo nemmeno qual era il suo nome, e Irina precedette la domanda sussurrando il nome con cui la chiamavano, Wafa-naka, Occhi-di-cielo, perché i suoi occhi erano di un azzurro profondo come quelli della madre e del padre. Ricordai con dolore come era blu il cielo sopra la radura il giorno in cui Theshxwe l’Onnipotente mi aveva portato via la donna amata e mi aveva dato una figlia invece di un primogenito maschio.
Protesi timidamente le mani verso di lei, pronunciando piano il suo nome: Occhi-di-cielo. La bambina guardò incerta Irina, che le sorrise, poi si mosse con sicurezza verso di me senza abbassare gli occhi e mi gettò le braccia al collo.
Entrammo nell’ampia sala al centro, intorno al cuore sacro della wuna, il fuoco al quale in tutti quegli anni aveva badato mia madre, capo della casa e della famiglia in mia assenza. Anche il carro si era fermato davanti all’abitazione, e presentai il suo conducente ai familiari e agli amici: era il mio konak, l’ospite, un mercante greco di nome Demetrios, che mi aveva seguito da Zhansherx, la città del principe Inal, fondata da suo nonno Abdun a sud del Psoz. Io non lo conoscevo né l’avevo mai incontrato prima che mi si presentasse; il greco invece, oltre a sapere un po’ la nostra lingua, conosceva il mio nome.
Anzi, quel nome, Yakov, lo aveva salvato quando era sceso dalla sua nave sulle rive dello Xi Fitse: Demetrios era stato subito circondato da cavalieri ostili, che lo avrebbero privato delle mercanzie e della sua stessa libertà se non si fosse dichiarato immediatamente konak del principe Yakov, chiedendo di essere protetto in nome del sacro dovere dell’ospitalità, e di essere portato al suo cospetto. Oltre alle merci da scambiare, Demetrios mi aveva recato notizie da una terra lontana, molto più lontana dello Xi Fitse, e mi aveva detto inoltre di dover riferire di persona un messaggio a mia madre.
Presentai Demetrios alla madre, e acconsentii che restassero da soli, in disparte in un angolo della sala. Tra la meraviglia di tutti, il greco Demetrios si inchinò davanti a lei. Io sentii che diceva solo poche parole e prendeva un piccolo oggetto dalla borsa, forse un anello, e glielo dava. Lei lo ascoltava senza parlare. Sapevo bene che non parlava. Non ricordo di aver mai sentito, da quando ero bambino, alcuna parola uscire dalle sue labbra. Lei comunicava solo a gesti. Si diceva che fosse diventata così molti anni prima, prima di sposarsi e prima che io nascessi, quando, tornata ai resti fumanti del suo villaggio bruciato dai tatari di Timur Balas, aveva saputo che le avevano rapito il fratello, e aveva visto la testa di suo padre infilzata su una lancia.
Mi accorsi con stupore che si commuoveva.
Fu solo un istante. Si ricompose subito, come imbarazzata da quel momentaneo cedimento, congedò il greco e andò ad accovacciarsi sul diwan al centro della sala, accanto a Occhi-di-cielo, invitando con le mani tutti a servirsi della semplice cena che le donne, in gran fretta, avevano preparato: una zuppa di ravioli di miglio, carne di pecora bollita e condita con salsa d’aglio, una torta di noci e miele. Nelle coppe d’argento, tirate fuori dalle casse e ripulite in onore mio, dei guerrieri e del konak, si versava la makhsima, la bevanda di miglio fermentato col miele. Una ragazza suonava una melodia lenta sulla pshine, muovendo un lungo arco sulle due sole corde di crini di cavallo tese sulla cassa oblunga.
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