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It

Author: Stephen King

17,90

Un viaggio illuminante lungo l’oscuro corridoio che dagli sconcertanti misteri dell’infanzia conduce a quelli della maturità.
A Derry , una piccola cittadina del Maine, l’autunno si è annunciato con una pioggia torrenziale che sembra non finire mai. Per un bambino come George Denbrough, ben coperto dal suo impermeabile giallo, il più grande divertimento è seguire la barchetta di carta che gli ha costruito il fratello maggiore Bill. Ma le strade sono sdrucciolevoli e George rischia di perdere il suo giocattolo, che infatti si infila in un canale di scolo lungo il marciapiede e sparisce nelle viscere della terra. Cercare di recuperarlo è l’ultimo gesto di George: una creatura spaventosa travestita da clown gli strappa un braccio uccidendolo. A combattere It, il mostro misterioso che prende la forma delle nostre peggiori paure, rimangono Bill e il gruppo di amici con i quali ha fondato il Club dei Perdenti, sette ragazzini capaci di immaginare un mondo senza mostri. Ma It è un nemico implacabile e per sconfiggerlo i ragazzi devono affrontare prove durissime e rischiare la loro stessa vita. E se l’estate successiva, che li ritrova giovani adulti, sembra quella della sconfitta di It, i Perdenti sanno di dover fare una promessa: qualunque cosa succeda, torneranno a Derry per combattere ancora.
It, considerato una pietra miliare della letteratura americana, è un romanzo di bambini che diventano adulti e di adulti che devono tornare bambini, affrontando le loro paure nell’unico modo possibile: uniti da un’incrollabile amicizia. E ora è anche un film che racconta come il Club dei Perdenti ha sconfitto It. La prima volta.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

4 Giugno 2013

ISBN

978-8868365622

Lingua

Italiano

Formato

Copertina flessibile

COD: 5815 Categoria: Tag: Product ID: 20743

Descrizione


1

Dopo l’alluvione (1957)

1

IL terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato di sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.

La barchetta beccheggiò, s’inclinò, si raddrizzò, affrontò con coraggio i gorghi infidi e proseguì per la sua rotta giù per Witcham Street, verso il semaforo che segnava l’incrocio con la Jackson. Le tre lampade disposte in verticale su tutti i lati del semaforo erano spente, in quel pomeriggio d’autunno del 1957, e spente erano anche le finestre di tutte le case. Pioveva ininterrottamente ormai da una settimana e da due giorni si erano alzati i venti. Allora quasi tutti i quartieri di Derry erano rimasti senza corrente e l’erogazione non era stata ancora ripristinata.

Un bambino in impermeabile giallo e stivaletti rossi correva allegramente dietro alla barchetta di carta. La pioggia era tutt’altro che cessata, ma la sua violenza si andava finalmente allentando. Tamburellava sul cappuccio giallo del bimbo e suonava alle sue orecchie come pioggia su una tettoia: un rumore amico, quasi intimo. Il bambino con l’impermeabile giallo era George Denbrough. Aveva sei anni. Suo fratello William, conosciuto fra i ragazzini della scuola elementare di Derry (e anche fra gli insegnanti, che mai avrebbero usato quel soprannome in sua presenza) come Bill Tartaglia, era a casa a smaltire i postumi di una brutta influenza. Nell’autunno del 1957, otto mesi prima che l’orrore si manifestasse definitivamente e ventotto anni prima dello scontro finale, Bill Tartaglia aveva dieci anni.

Bill aveva confezionato la barchetta che George stava inseguendo. L’aveva fabbricata a letto, seduto con la schiena appoggiata a una pila di guanciali, mentre la loro madre suonava Für Elise al pianoforte del salotto e la pioggia batteva senza posa contro il vetro della sua finestra.

A tre quarti dell’isolato, scendendo verso l’incrocio dove c’era il semaforo spento, Witcham Street era interrotta al traffico dei veicoli da alcuni bidoni e quattro cavalletti dipinti d’arancione. La scritta stampigliata su ciascuno dei cavalletti avvertiva che erano di proprietà dell’assessorato ai lavori pubblici di Derry. Oltre la barriera, la pioggia era traboccata dai canali di scolo ostruiti da rami e sassi e grossi ammassi appiccicosi di foglie autunnali. L’acqua aveva dapprima scavato frammenti nella pavimentazione, per poi strapparne via brani interi con voracità, quando si era ancora al terzo giorno di pioggia. Nel primo pomeriggio del quarto giorno, larghi pezzi di copertura stradale traghettavano nell’incrocio della Jackson con la Witcham come zattere in miniatura. In molti intanto a Derry avevano preso a scherzare parlando di arche con percepibile nervosismo. L’assessorato ai lavori pubblici era riuscito a tener sgombra Jackson Street, ma la Witcham era intransitabile dai cavalletti giù fino al centro cittadino.

Tutti però convenivano che ormai il peggio era passato. Il Kenduskeag aveva superato di poco gli argini nei Barren, rimanendo di pochi centimetri sotto il ciglio delle pareti di cemento del Canale, che ne convogliava le acque attraverso la cittadina. Attualmente una squadra di uomini, fra i quali c’era anche Zack Denbrough, padre di George e Bill, stavano rimuovendo i sacchetti di sabbia precipitosamente accatastati il giorno prima. L’alluvione, con i conseguenti gravi danni, era sembrata a tutti inevitabile. E Dio sa che non era la prima volta: quella del 1931 era stata una vera sciagura, costata milioni di dollari e una ventina di vite umane. Era passato molto tempo, ma coloro che ricordavano erano ancora in numero sufficiente da spaventare gli altri. Una delle vittime dell’inondazione era stata trovata a Bucksport, venticinque miglia a est. I pesci avevano mangiato gli occhi, il pene e quasi tutto il piede sinistro di quel malcapitato. In ciò che restava delle sue mani stringeva ancora il volante di una Ford.

Ora tuttavia la portata del fiume era in calando e, con la costruzione della nuova diga a monte, quel corso d’acqua avrebbe smesso di rappresentare una minaccia. O così sosteneva Zack Denbrough, che lavorava per l’Idroelettrica Bangor. E gli altri? Be’, che i posteri se la vedessero con le future inondazioni. Al momento si trattava di resistere a questa, ripristinare la fornitura di energia elettrica e scordarsi la disavventura il più presto possibile. A Derry, lo scarico nel dimenticatoio di tragedie e disastri era quasi un’arte, come Bill Denbrough avrebbe scoperto nel corso del tempo.

George sostò appena oltre i cavalletti, ai bordi di una voragine che si era aperta nell’asfalto di Witcham Street. Il crepaccio disegnava una diagonale quasi perfetta. Terminava sull’altro lato della strada, una quindicina di metri sotto il dosso in cima al quale George si era fermato. Rise forte e quell’espressione di solitaria gioia infantile vibrò cristallina nel pomeriggio grigio, mentre un capriccio della corrente trascinava la sua barchetta di carta in una rapida in scala ridotta, formata dalla spaccatura nell’asfalto. L’irruenza dell’acqua aveva dato origine a un flusso che scorreva lungo la diagonale, così la sua barchetta compì la traversata da un lato all’altro di Witcham Street, trascinata con tanta foga che George dovette correre a perdifiato per starle dietro. Onde di acqua limacciosa si aprivano da sotto i suoi stivali e le fibbie producevano un gaio tintinnio, mentre George Denbrough andava verso la sua strana morte. E il sentimento che lo colmava in quei momenti era amore semplice e puro per suo fratello Bill… amore e una punta di rimpianto, perché Bill non era potuto scendere con lui ad assistere a questo spettacolo. Senz’altro avrebbe cercato di descriverglielo quando fosse tornato a casa, ma sapeva che non sarebbe mai stato capace di farglielo vedere, come sicuramente Bill lo avrebbe fatto vedere a lui, se si fossero scambiate le parti. Bill era un campione nel leggere e nello scrivere, ma nonostante la tenera età George era abbastanza intelligente da capire che quello non era l’unico motivo per cui Bill aveva fior di pagelle e ai suoi insegnanti piacevano tanto i suoi temi. Il suo talento nel raccontare aveva un’importanza solo parziale: Bill sapeva vedere.

La barchetta quasi sfrecciò nella corrente diagonale. Era solo una pagina strappata da quelle delle inserzioni del News di Derry e ripiegata ad arte, ma in lei George vedeva una motosilurante come quelle nei film di guerra, che davano ogni tanto al cinema locale, dove andava con Bill il sabato pomeriggio. Un film di guerra con John Wayne che combatteva contro i giapponesi. La prua della barchetta di carta sollevò spruzzi attraversando la via e raggiunse il canaletto sul lato sinistro di Witcham Street. Un fiotto improvviso superò il crepaccio nell’asfalto dando origine a un gran gorgo e per un attimo il bimbo credette che la barchetta ne sarebbe stata travolta: si era piegata pericolosamente su un fianco. Ma, subito dopo, la vide drizzarsi, voltarsi e ripartire verso l’incrocio. Mandò un grido di gioia e sgambettò alacremente per raggiungerla. Sopra di lui una tetra folata di vento scosse rumorosamente gli alberi, ormai quasi completamente alleggeriti del loro carico di foglie colorate da una tempesta che quell’anno si era presentata nei panni di spietata mietitrice.

 

2

Seduto nel letto, con le guance ancora arrossate (però la sua febbre, come il Kenduskeag, andava calando), Bill aveva finito la barchetta, ma quando George cercò di prenderla, gliela sottrasse. «Ora p-portami la p-p-paraffina.»

«Che cos’è? Dov’è?»

«In cantina, sullo s-s-scaffale in fondo alle s-scale», rispose Bill. «In una scatola con scritto G-G-GULF. Portami la scatola, un coltello e una s-s-scodella. E dei f-f-fiammiferi.»

Ubbidiente, George era andato a procurarsi tutti quegli oggetti. Sentiva sua madre suonare il piano, non Für Elise, bensì un altro pezzo che gli piaceva meno, troppo duro e complicato. Sentiva anche la pioggia che tempestava le finestre della cucina. Quelli erano suoni confortevoli, mentre dal pensiero della cantina non ricavava alcun conforto. Non gli piaceva la cantina e non gli piaceva scenderne le scale perché si immaginava sempre che nel buio ci fosse in agguato qualcosa. Era sciocco da parte sua, naturalmente, così diceva suo padre e così diceva sua madre e, più importante ancora, così diceva Bill, però…

Non gli piaceva nemmeno aprire la porta per accendere la luce, perché aveva la fissazione – così squisitamente stupida che non osava rivelarla a nessuno – che mentre cercava l’interruttore un orribile artiglio gli si sarebbe chiuso delicatamente intorno al polso… per trascinarlo con uno strattone in quella tenebra che puzzava di sporco e bagnato e di oscure verdure putrefatte.

Stupido! Non esistevano artigli ambulanti, tutti pelosi e carichi di odio omicida. Ogni tanto qualcuno dava fuori di matto e ammazzava un mucchio di persone, come raccontava talvolta Chet Huntley al telegiornale; poi naturalmente c’erano i comunisti; ma non c’era un mostro misterioso insediato nella loro cantina. L’ipotesi, comunque, non era mai stata scartata del tutto dal suo intimo. Negli interminabili momenti durante i quali cercava a tentoni l’interruttore con la mano destra e stringeva il braccio sinistro come una morsa sullo stipite della porta, quell’odore di cantina pareva intensificarsi fino a riempire il mondo intero. Il puzzo della sporcizia e quello dell’umidità e quello di verdure marcite si fondevano in un unico tanfo ineluttabile e inequivocabile, il tanfo del mostro, apoteosi di tutti i mostri. Era l’odore di qualcosa per cui non aveva trovato un nome: l’odore di It, acquattato nel buio e pronto a spiccare il balzo. Una creatura che avrebbe mangiato di tutto, ma specialmente affamata di carni di bimbo.

Aveva aperto la porta quel giorno e aveva palpato la parete per un tempo interminabile a caccia di quell’interruttore, trattenendo lo stipite nella solita morsa, gli occhi ben strizzati, la punta della lingua sporta dall’angolo della bocca come una radichetta agonizzante che cerca acqua in una landa colpita dalla siccità. Divertente? Come no! Da morire! Guardati, Georgie! Georgie ha paura del buio! Che bamboccio!

Le note del pianoforte venivano da quello che suo padre chiamava il soggiorno e sua madre chiamava il salotto. Sembrava musica di un altro mondo, lontanissimo, che risuonava alle sue orecchie come le conversazioni e le risate su una spiaggia estiva gremita di folla risuonavano alle orecchie di un nuotatore spossato che lotta con la risacca.

Le sue dita avevano trovato l’interruttore. Ah! Lo scatto…

…e niente. Niente luce.

Oh, cribbio! Non c’è corrente!

George ritirò il braccio come da una cesta piena di serpenti. Indietreggiò dalla porta della cantina aperta, con il cuore che gli martellava nel petto. Non c’era corrente elettrica. Se n’era dimenticato. Caspiterina! E adesso? Doveva tornare da Bill a dirgli che non poteva prendere la scatola di paraffina perché non c’era corrente elettrica e aveva paura che qualcosa l’acchiappasse sulle scale della cantina, qualcosa che non era un comunista o un pluriomicida, ma una creatura mille volte peggiore? Un essere che avrebbe fatto semplicemente sgusciare un’appendice del suo corpo schifoso fra gli scalini per afferrargli la caviglia? Bella figura! Altri ne avrebbero riso, ma Bill certamente no. Bill si sarebbe arrabbiato. Gli avrebbe detto: Quando ti deciderai a crescere, Georgie? La vuoi, questa barca, o no?

Come per telepatia, Bill gridò dalla sua stanza: «Ehi, G-Georgie? Che f-f-fine hai fatto?»

«Arrivo, Bill», gridò subito lui. Si massaggiò le braccia per far sparire la pelle d’oca provocatagli dalla paura. «Mi sono solo fermato a bere un sorso d’acqua.»

«Vedi di sb-sbrigarti!»

Così scese i quattro scalini fino alla mensola con il cuore che era come un martello caldo nella gola e i capelli della nuca sull’attenti, gli occhi brucianti, le mani gelide, sicuro che da un momento all’altro la porta della cantina si sarebbe richiusa da sola, spegnendo la luce bianca che arrivava dalle finestre della cucina, e che allora lo avrebbe sentito, una cosa peggiore di tutti i comunisti e gli assassini del mondo, peggiore dei giapponesi, peggiore di Attila l’Unno, peggiore di qualunque cosa in cento film dell’orrore. L’avrebbe sentito ringhiare, un ringhio sordo in quei pochi secondi di follia prima che gli saltasse addosso e gli squarciasse le viscere.

L’odore di cantina era più nauseante che mai, quel giorno, a causa dell’alluvione. La loro casa si trovava in cima a Witcham Street, vicino al culmine del colle, perciò erano scampati al peggio; tuttavia laggiù, sul fondo, stagnava l’acqua che era filtrata dalle vecchie fondamenta di pietra. L’odore era insinuante e sgradevole e ti faceva venir voglia di respirare il meno possibile.

George rovistò in tutta fretta tra gli oggetti sulla mensola: vecchie scatolette di lucido da scarpe e stracci per lucidare, una lampada al cherosene rotta, due flaconi quasi completamente vuoti di Windex, una vecchia scatola piatta di cera. Per qualche ragione quest’ultima lo colpì, perciò contemplò per quasi trenta secondi la tartaruga disegnata sul coperchio in una sorta di stupore ipnotico. Poi la lasciò ricadere sulla mensola… ed eccola finalmente, una scatola con scritto GULF.

L’afferrò e risalì di volata le scale accorgendosi solo allora di avere la camicia fuori dei pantaloni e a un tratto fu sicuro che la camicia sarebbe stata la sua rovina: la cosa che viveva in cantina gli avrebbe permesso di arrivare fin quasi alla soglia, per poi afferrarlo per il lembo della camicia e trascinarlo giù e allora…

Giunse in cucina e si avventò sulla porta per richiuderla. Sbatté provocando uno spostamento d’aria. Vi si appoggiò contro con gli occhi chiusi, ricoperto di un sudore freddo, la scatola di paraffina stretta nella mano.

La musica del pianoforte si era interrotta e udì la voce dolce di sua madre: «Georgie, potresti sbattere quella porta un po’ più forte la prossima volta? Con un po’ di buona volontà dovresti riuscire a rompere qualcuno dei piatti della credenza gallese».

«Scusa, mamma.»

«Georgie, sei il s-solito», sibilò Bill dalla sua camera. Aveva parlato a voce bassa in modo che la madre non udisse.

George ridacchiò. La sua paura era già svanita. Scivolata via come si dissipa un incubo nella mente di un uomo che si risveglia ansimante, acquista coscienza del proprio corpo e si guarda intorno per assicurarsi che nulla di quanto ha vissuto è veramente successo e comincia subito a dimenticarsene. Metà scompare quando posa i piedi sul pavimento; un altro quarto è svanito quando chiude l’acqua della doccia e comincia ad asciugarsi; il resto se ne va ora che ha finito di fare colazione. Tutto sparito… fino alla prossima volta, quando, nella morsa dell’incubo, tutte le paure saranno ricordate.

Quella tartaruga, pensava George mentre andava ad aprire il cassetto in cui erano conservati i fiammiferi. Dove ho già visto una tartaruga come quella?

Non trovò risposta e se ne disinteressò.

Trovò la scatoletta dei fiammiferi, prese un coltello dalla rastrelliera (inclinando all’esterno il bordo affilato della lama, come gli aveva insegnato suo padre), e una piccola scodella dalla credenza gallese in sala da pranzo. Poi tornò nella stanza di Bill.

«Che b-buco sei, G-Georgie», balbettò Bill. Spinse da parte tutti gli «accessori da malattia» che ingombravano il suo comodino: un bicchiere vuoto, una caraffa d’acqua, fazzoletti di carta, libri, un flaconcino di Vicks VapoRub, il cui odore Bill avrebbe associato per tutta la vita a bronchi catarrosi e nasi mocciosi. Poi c’era anche la vecchia Philco che non suonava Chopin o Bach, ma Little Richard… piano piano, però, così sommessamente da soffocarne tutta la cruenta ed elementare energia. La loro madre, che aveva studiato pianoforte classico alla Juilliard, detestava il rock and roll. Non è che non le piacesse: ne era addirittura stomacata.

«Non sono un buco», protestò George sedendosi sulla sponda del letto di Bill e posando sul comodino quello che aveva portato

. «Sì che lo sei», insisté Bill. «Nient’altro che un gran b-buco marrone, ecco che cosa sei.»

George cercò di immaginarsi un bambino che non fosse altro che un gran buco su due gambe e cominciò a ridere.

«Il tuo b-buco è più grande della città», disse Bill, cominciando a sghignazzare a sua volta.

«Il tuo buco è più grande di tutto lo stato», rispose George. Questo li tramortì entrambi di risate per quasi due minuti.

Seguì una conversazione bisbigliata, di quelle che possono avere significato solo per i bambini: accuse reciproche su chi era il buco più grande, chi aveva il buco più grande, quale buco fosse il più marrone e così via. Finché Bill pronunciò una delle parole proibite, accusando George di essere un gran buco marrone e merdoso. Allora le risate divennero fragorose. Poi il riso di Bill si trasformò in un accesso di tosse. Proprio quando gli stava passando (e ormai la faccia di Bill aveva assunto un color prugna che suscitava una certa preoccupazione in George), la musica del piano cessò di nuovo. Guardarono entrambi in direzione del salotto, in attesa di udire il cigolio del panchetto che veniva sospinto e i passi impazienti della madre. Bill si coprì la bocca con il braccio, soffocando l’ultimo colpo di tosse e indicando contemporaneamente la caraffa. George gli versò un bicchiere d’acqua, che tracannò subito.

La musica del piano riprese, di nuovo Für Elise. Bill Tartaglia non avrebbe mai dimenticato quel pezzo e anche a distanza di molti anni, gli avrebbe fatto ancora accapponare la pelle delle braccia e della schiena; avrebbe provato un tuffo al cuore e avrebbe ricordato: Mia madre lo suonava il giorno che morì Georgie.

«Hai intenzione di tossire di nuovo, Bill?»

«No.»

Bill prese un fazzoletto di carta dalla scatola e sputò nel kleenex, che poi attorcigliò e gettò nel cestino accanto al letto, già pieno di altre, analoghe confezioni. Poi aprì la scatola di paraffina e si lasciò cadere nel palmo della mano un cubo di sostanza simile a cera. George lo osservò attentamente, ma senza parlare o far domande. A Bill non piaceva che George parlasse quando era al lavoro, ma George aveva imparato che se teneva la bocca chiusa di solito suo fratello gli spiegava che cosa stava facendo.

Bill si servì del coltello per staccare una scaglia dal cubo di paraffina. Posò il pezzetto nella scodella, accese un fiammifero e lo avvicinò alla paraffina. Insieme osservarono la fiammella gialla mentre il vento, che si stava indebolendo, spingeva la pioggia contro la finestra in scrosci irregolari.

«Bisogna impermeabilizzare la barca, altrimenti la carta si bagna e affonda», spiegò Bill. Quand’era in compagnia di George, la sua balbuzie era meno evidente, tanto che talvolta non balbettava affatto. A scuola invece si aggravava notevolmente, anche al punto da non riuscire più a parlare. In quei momenti, i compagni di Bill tacevano imbarazzati guardando altrove mentre lui, aggrappato al banco, con la faccia rossa quasi quanto i suoi capelli e gli occhi ridotti a due fessure sottili, si sforzava di spremere una parola dalla gola ostinatamente chiusa. Qualche volta, il più delle volte, ce la faceva. Altre la parola si rifiutava semplicemente di uscire. Era stato investito da un’automobile all’età di tre anni e scaraventato contro il muro di una casa. Era rimasto svenuto per sette ore. Sua madre sosteneva che era stato quell’incidente ad aver causato la balbuzie. George, però, aveva la sensazione che suo padre (e lo stesso Bill) non ne fosse altrettanto sicuro.

Il pezzetto di paraffina si era quasi completamente sciolto nella scodella. La fiammella si rimpicciolì, tingendosi di azzurro negli ultimi palpiti intorno allo stecchino di cellulosa pressata e finalmente si spense. Bill immerse il polpastrello nel liquido e lo estrasse di colpo con un lieve sibilo. Rivolse a George un sorriso un po’ imbarazzato. «Scotta», disse. Dopo qualche secondo provò di nuovo con miglior fortuna. Cominciò a spennellare la paraffina sui lati della barchetta, dove si raddensava velocemente in una pellicola lattiginosa.

«Posso farne un po’ anch’io?» domandò George.

«D’accordo. Sta’ solo attento a non farla cadere sulle coperte o la mamma ti scuoia.»

George intinse il dito nella paraffina, che ora era molto calda ma non scottava più, e cominciò a spargerla sull’altro lato della barchetta.

«Ma non così, è troppa, lo vedi che buco che sei!» esclamò Bill. «Vuoi che affondi appena varata?»

«Scusa.»

«Di meno, m-mettine di meno.»

George terminò l’operazione sul suo lato, quindi prese la barchetta fra le mani. Era più pesante di prima, ma non molto. «Troppo bella», commentò. «Vado fuori a farla navigare.»

«Sì, fai così», mormorò Bill. All’improvviso sembrava stanco… stanco e non del tutto ristabilito.

«Peccato che non puoi venire anche tu», si rammaricò George. Gli dispiaceva davvero. Alla lunga, Bill era capace di fare anche il prepotente, ma aveva sempre delle idee brillanti ed era raro che lo picchiasse. «In fondo la barca è tua.»

«Nave», lo corresse Bill. «Questa è una nave, non una barca.»

«La nave, allora.»

«Anche a me piacerebbe venire», rimpianse mestamente Bill.

«Be’…» George spostò il peso del corpo da una gamba all’altra, con la barchetta fra le mani.

«Vestiti bene», gli raccomandò Bill, «se no finisci a l-letto con l’influenza come me. Anche se tanto la prenderai lo stesso dai miei ge-germi.»

«Grazie, Bill. È una bella nave.» E fece una cosa che non faceva più da molto tempo, una cosa che Bill non avrebbe mai dimenticato: baciò suo fratello sulla guancia.

«Adesso non puoi fare a meno di prenderla, b-buco che sei», lo rimproverò Bill. Ma si vedeva che aveva apprezzato il suo gesto e gli sorrise. «Rimetti anche tutto a posto, o la mamma ci pianterà una grana.»

«Certo.» George raccolse l’attrezzatura per l’impermeabilizzazione e attraversò la stanza con la barchetta appollaiata in equilibrio precario sulla scatola della paraffina, infilata per traverso nella scodella.

«G-G-Georgie?» George si voltò a guardare il fratello.

«Sii p-prudente.»

«Sicuro.» Corrugò lievemente la fronte. Quelle erano raccomandazioni che venivano dalla mamma, non dal fratello maggiore. Quelle parole gli sembrarono strane come il bacio che gli aveva dato lui poco prima. «Sicuro che sarò prudente.»

Uscì. Bill non l’avrebbe mai più rivisto.

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