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La ragazza nell’ombra. Le Sette Sorelle Vol. 3

Il prezzo originale era: €13,00.Il prezzo attuale è: €12,50.

Silenziosa ed enigmatica, appassionata di letteratura e cucina, Star è la terza delle sei figlie adottive del magnate Pa’ Salt e vive da sempre nell’ombra dell’esuberante sorella CeCe. Fin da piccole le due sono inseparabili: hanno un linguaggio segreto che comprendono solo loro e hanno passato gli ultimi anni viaggiando per il mondo, guidate dallo spirito indomito di CeCe, di cui Star è abituata ad assecondare ogni desiderio. Ma adesso, a solo due settimane dalla morte del padre, CeCe decide che per entrambe è arrivato il momento di fissare un punto fermo nelle loro vite e mostra a Star il magnifico appartamento sulle rive del Tamigi che ha intenzione di comprare per loro. Per la prima volta nella sua vita, però, Star sente che qualcosa in lei è cambiato: quel rapporto quasi simbiotico sta rischiando di soffocarla. È ora di trovare finalmente la propria strada, cominciando dagli indizi che Pa’ Salt le ha lasciato per metterla sulle tracce delle sue vere origini: una statuetta che raffigura un gatto nero, il nome di una donna misteriosa vissuta quasi cent’anni prima e il biglietto da visita di un libraio londinese. Ma cosa troverà tra i volumi polverosi di quella vecchia libreria antiquaria? E dove vuole condurla realmente Pa’ Salt?

Segreti e destini magistralmente intrecciati formano l’avvincente enigma che Star dovrà decifrare nel terzo, straordinario capitolo della saga bestseller.

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

12 giugno 2019

ISBN

978-8809873414

Lingua

Italiano

Formato
Copertina flessibile

€ 13,00

COD: 6343 Categoria: Tag: Product ID: 21994

Descrizione


1

Ricorderò sempre alla perfezione dov’ero e cosa stavo facendo quando mi dissero che mio padre era morto.

Con la penna ancora sospesa sul foglio, alzai lo sguardo verso il sole di luglio – o almeno l’esile raggio che era riuscito a filtrare tra la finestra e il muro di mattoni rossi che si ergeva a pochi metri da me. Tutte le finestre del nostro minuscolo appartamento davano su quel muro e, nonostante il bel tempo, quel giorno la casa era buia. Era così diversa da Atlantis, la casa della mia infanzia sul Lago di Ginevra.

Mi resi conto che ero seduta esattamente dove mi trovavo nel momento in cui CeCe era entrata nel nostro piccolo, misero soggiorno per annunciarmi che Pa’ Salt era morto.

Posai la penna e andai a versarmi un bicchiere d’acqua del rubinetto. L’atmosfera era soffocante e fastidiosa; bevvi avidamente mentre riflettevo sul fatto che non dovevo farlo per forza, non dovevo infliggermi il dolore del ricordo. Era stata Tiggy, mia sorella minore, ad avermi suggerito l’idea quando l’avevo incontrata ad Atlantis dopo la morte di Pa’.

«Cara Star» aveva detto quando eravamo uscite in barca sul lago per distrarci un po’ dal nostro dolore. «So che per te è difficile parlare di quello che provi. E so anche che stai soffrendo. Perché non provi a scrivere i tuoi pensieri?»

Due settimane fa, sull’aereo che mi aveva riportato da Atlantis, avevo ripensato alle parole di Tiggy. E quella mattina avevo tentato di seguire il suo suggerimento.

Mentre fissavo la parete di mattoni, pensai, afflitta, che rappresentava la perfetta metafora della mia vita in quel momento – un’idea che mi fece sorridere. E il pensiero tornò al tavolo di legno tutto graffiato che il nostro misterioso padrone di casa doveva aver comprato per una miseria da un rigattiere. Mi sedetti e presi di nuovo in mano l’elegante stilografica che Pa’ Salt mi aveva regalato per il ventunesimo compleanno.

«Non comincerò dalla morte di Pa’» dissi ad alta voce. «Comincerò da quando siamo arrivate qui a Londra…»

La porta d’ingresso sbatté, facendomi sussultare. Era mia sorella CeCe, lo capii subito. Tutto ciò che faceva, lo faceva rumorosamente. Sembrava che proprio non riuscisse, per esempio, ad appoggiare sul tavolo una tazza di caffè senza sbatterla forte e rovesciarne il contenuto. Non sapeva cosa significasse “parlare a bassa voce”, e sin da piccola gridava a un volume tale che Ma’, preoccupata, l’aveva portata a farle controllare l’udito. Ovviamente non aveva nulla che non andasse. Come non risultò nulla di preoccupante quando, un anno più tardi, Ma’ mi aveva portato da un logopedista, dato che non parlavo un granché.

«Conosce le parole, ma preferisce non utilizzarle» aveva spiegato il dottore. «Lo farà quando sarà pronta.»

A casa, tentando disperatamente di comunicare con me, Ma’ mi aveva insegnato i rudimenti del linguaggio dei segni francese.

«Così, quando avrai bisogno di qualcosa, o vorrai parlare,» mi aveva detto «potrai usarlo per dirmi quello che provi. Al momento io per te provo questo.» Aveva rivolto un dito verso se stessa, aveva incrociato i palmi sul cuore e mi aveva indicata. «Io ti voglio bene.»

Anche CeCe l’aveva imparato in fretta, e quello che era iniziato come un metodo per comunicare con Ma’ era diventato il nostro linguaggio privato – un misto tra segni e parole inventate – cui ricorrevamo quando dovevamo parlare ma non eravamo sole. Ci divertivamo un mondo a vedere le espressioni sbalordite delle nostre sorelle ogni volta che rivolgevo un segno a CeCe, ed entrambe scoppiavamo a ridere senza ritegno.

Guardandomi indietro mi rendevo conto che CeCe e io eravamo diventate il contrario l’una dell’altra: io parlavo piano e poco, lei forte e spesso. E più lei parlava, meno io sentivo il bisogno di farlo; le nostre personalità erano agli antipodi. Da bambine la cosa non sembrava avere importanza, nella nostra grande famiglia con sei figlie: potevamo contare l’una sull’altra.

Il problema, però, era che importava adesso…

«Indovina un po’? L’ho trovato» esclamò CeCe entrando in soggiorno. «E tra qualche settimana potremo trasferirci. Stanno finendo i lavori, ma quando sarà pronto, ti sembrerà incredibile. Dio, che caldo fa qui. Non vedo l’ora di lasciare questo posto.»

CeCe andò in cucina e sentii lo scroscio dell’acqua del rubinetto. Sicuramente aveva schizzato tutto il lavello, che poco prima avevo pulito e asciugato con grande fatica.

«Vuoi un po’ d’acqua, Sia?»

«No, grazie.» Anche se CeCe usava questo nomignolo solo quando eravamo sole, mi rimproveravo sempre per il moto di irritazione che avvertivo nel sentirglielo usare. L’aveva trovato su un libro che Pa’ Salt mi aveva regalato per Natale, La storia di Anastasia, che parlava di una ragazzina che viveva nei boschi della Russia e scopriva di essere una principessa.

«Ti assomiglia, Star» aveva detto CeCe guardando le figure del libro. Avevamo cinque anni. «Forse anche tu sei una principessa. Sei carina, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. D’ora in poi ti chiamerò “Sia”. E sta benissimo con “Cee”! Cee e Sia, le gemelle!» Aveva battuto le mani contenta.

Solo in seguito, dopo aver letto la vera storia della famiglia reale russa, mi ero resa conto di cosa fosse successo ad Anastasia Romanova e ai suoi fratelli. Altro che favola… E ormai non ero più una bambina, ma una donna di ventisette anni. «Sono sicura che ti piacerà da morire il nuovo appartamento» disse CeCe ricomparendo in soggiorno e buttandosi sul divano di pelle tutto rovinato. «Ho preso un appuntamento per andare a vederlo, domattina. Costa un sacco di soldi, ma ora posso permettermelo. E inoltre l’agente immobiliare mi ha detto che la City è in fermento. Per adesso non ci sono molti acquirenti in circolazione, perciò abbiamo concordato un prezzo di favore. È giunto il momento di farci una casa come si deve.»

È il momento di farmi una vita come si deve, pensai.

«Lo vuoi comprare?» dissi.

«Sì. O almeno, lo farò se ti piacerà.»

Ero talmente stupita che non sapevo cosa dire.

«Va tutto bene, Sia? Sembri stanca. Non hai dormito bene stanotte?»

«No.» Nonostante gli sforzi, non riuscii a trattenere le lacrime al pensiero delle lunghe ore insonni in cui avevo pianto il mio adorato padre, ancora incapace di credere che se ne fosse andato davvero. «Sei ancora scombussolata, è questo il problema. È successo solo un paio di settimane fa, dopotutto. Ti sentirai meglio, te lo garantisco, specialmente dopo che avrai visto la nostra nuova casa. È questo postaccio che ti deprime. Deprime anche me» aggiunse. «Hai scritto al tizio per il corso di cucina?»

«Sì.»

«E quando comincia?»

«La settimana prossima.»

«Bene. Abbiamo tempo per scegliere i mobili per la nuova casa.» CeCe si avvicinò e mi abbracciò. «Non vedo l’ora di mostrartela.» «Non è incredibile?»

CeCe spalancò le braccia in quello spazio grande e vuoto; la sua voce rimbombava sulle pareti mentre si avvicinava alla portafinestra di vetro e la apriva.

«E guarda, questo balcone è per te» disse facendomi cenno di seguirla. Uscimmo e mi resi conto che “balcone” era una definizione riduttiva per il luogo in cui ci trovavamo. Era un meraviglioso, enorme terrazzo sospeso sul Tamigi. «Puoi metterci tutte le tue erbe e quei fiori che amavi coltivare ad Atlantis» disse CeCe avvicinandosi al parapetto e osservando le acque grigie sotto. «Non è spettacolare?» Annuii, ma lei era già rientrata e dovetti seguirla. «In cucina manca ancora tutto, ma appena avrò firmato, avrai campo libero per scegliere il piano cottura, il frigo e tutto il resto. Visto che diventerai una professionista» disse facendomi l’occhiolino.

«Non credo proprio, CeCe. Seguirò solo un breve corso.»

«Ma hai un grande talento e sono certa che troverai un lavoro appena vedranno di cosa sei capace. Comunque, credo che sia perfetto per entrambe, no? Io posso usare quella zona per farci il mio studio.» Indicò un’area stretta tra la parete in fondo e una scala a chiocciola. «La luce è favolosa. E tu avrai la tua megacucina e anche lo spazio all’aperto. È la cosa più simile ad Atlantis che sono riuscita a trovare, qui nel centro di Londra.»

«Sì. È bellissimo, grazie.»

Mi rendevo conto di quanto fosse eccitata per questa casa e, dovevo ammetterlo, l’appartamento era davvero notevole. Non volevo rovinarle quel momento dicendole la verità, cioè che quella grossa scatola di vetro senz’anima nei pressi del fiume limaccioso era quanto di più lontano ci fosse dall’atmosfera di Atlantis.

Mentre CeCe e l’agente parlavano dei pavimenti di legno chiaro che avrebbero posato di lì a poco, io scossi la testa per scacciare i pensieri cupi. Ero una ragazza viziata: dopotutto, rispetto alle strade di Delhi o alle baraccopoli che avevo visto a Phnom Penh, vivere in un appartamento nuovo di zecca a Londra non era certo un dramma.

Ma il fatto era che avrei davvero preferito una capanna, qualcosa con le fondamenta ben salde nel terreno, con un piccolo appezzamento di terra intorno.

Mi voltai sentendo CeCe blaterare di una specie di telecomando che apriva e chiudeva le tapparelle e di un altro che attivava gli altoparlanti invisibili del Dolby Surround. Mentre l’agente non la guardava, mi disse «che furbacchione» con il linguaggio dei segni e alzò gli occhi al cielo. Io riuscii a sorriderle anche se stavo iniziando a soffrire di claustrofobia perché non potevo aprire la porta e scappare… Le città mi soffocavano; trovavo insopportabili il rumore, gli odori e le orde di persone. Ma almeno la casa era ampia e ariosa…

«Sia?»

«Scusa, Cee, cos’hai detto?»

«Andiamo di sopra a vedere la camera da letto?»

Salimmo la scala a chiocciola fino alla stanza che, come mi aveva annunciato CeCe, avremmo diviso, nonostante ci fossero altre camere da letto. Sentii un brivido corrermi lungo la schiena, nonostante la vista di cui si godeva dalla finestra, che effettivamente da lassù era spettacolare. Poi ci spostammo nell’incredibile bagno annesso alla camera, e capii che CeCe aveva fatto del suo meglio per trovare qualcosa che andasse bene a entrambe.

Ma il fatto era che non eravamo sposate. Eravamo sorelle.

Conclusa la visita CeCe insistette per passare da un negozio di mobili in King’s Road, dopodiché riprendemmo l’autobus che ci riportò al di là del fiume attraverso l’Albert Bridge.

«Il ponte ha il nome del marito della regina Vittoria» le dissi per abitudine. «E c’è un memoriale dedicato a lui a Kensington…»

CeCe mi interruppe con un segno che significava «smettila». «Di’ la verità, Star: ti porti ancora dietro la guida turistica?»

«Sì» ammisi, facendole il nostro segno che voleva dire «secchiona». Adoravo la storia.

Scendemmo vicino al nostro appartamento e CeCe mi disse: «Andiamo a mangiare qualcosa fuori. Dobbiamo festeggiare».

«Ma non abbiamo soldi.» O almeno, pensai, io di certo non li ho.

«Offro io» mi rassicurò CeCe.

Entrammo in un pub e CeCe ordinò una bottiglia di birra per lei e un bicchiere di vino per me. Nessuna delle due beveva molto; CeCe, in particolare, non reggeva l’alcol, una cosa che aveva scoperto a sue spese dopo una festa particolarmente sfrenata da adolescenti. Seduta al bancone del bar riflettei sul denaro di cui CeCe aveva misteriosamente cominciato a disporre dopo aver ricevuto la sua busta da Georg Hoffman, l’avvocato di Pa’. CeCe era andata a parlare con lui a Ginevra implorandolo affinché anch’io potessi essere presente, ma lui aveva detto di no.

«Purtroppo devo seguire le istruzioni del mio cliente. Vostro padre ha insistito affinché qualsiasi incontro con voi fosse condotto in privato, individualmente.»

Perciò avevo aspettato in sala d’attesa mentre mia sorella era entrata nel suo ufficio. Quando uscì, era tesa ed emozionata.

«Scusa, Sia, ma ho dovuto firmare uno stupido accordo di riservatezza. Probabilmente è un altro dei giochetti di Pa’. Posso solo dirti che sono buone notizie.»

A quanto ne sapevo era l’unica cosa che CeCe mi avesse mai tenuto segreta, e nemmeno adesso avevo idea della provenienza di tutti quei soldi. Georg Hoffman ci aveva spiegato che secondo il testamento di Pa’ avremmo continuato a ricevere soltanto una rendita sufficiente per mantenerci. Ma che eravamo anche libere di andare da lui a chiedere altro denaro in caso di bisogno. Forse bastava solo chiedere, come presumibilmente aveva fatto mia sorella.

«Salute!» esclamò CeCe facendo tintinnare la bottiglia contro il mio bicchiere. «Alla nostra nuova vita a Londra.»

«E a Pa’ Salt» dissi alzando il bicchiere.

«Sì» disse lei. «Gli volevi davvero bene, vero?»

«E tu no?»

«Ma certo! Era… speciale.»

Guardai CeCe divorare avidamente il cibo che ci avevano portato e pensai che, anche se eravamo entrambe figlie di Pa’ Salt, la sua morte era una tragedia di cui portavo il peso da sola.

«Pensi che dovremmo comprare l’appartamento?»

«CeCe, la decisione spetta a te. Non pago io, perciò non sta a me decidere.»

«Non essere sciocca, sai bene che quello che è mio è tuo e viceversa. E poi, se mai decidessi di aprire la busta che Pa’ ti ha lasciato, chissà cosa potresti trovarci» mi incoraggiò.

Aveva insistito su quell’argomento sin dal giorno in cui avevamo ricevuto le buste. Lei aveva aperto la sua quasi subito e si aspettava che anch’io facessi lo stesso.

«E dài, Sia, non vuoi proprio aprirla?» mi aveva incalzato.

Ma non potevo farlo… perché qualsiasi cosa avessi trovato lì dentro avrebbe significato accettare che Pa’ Salt non c’era più. E io non ero pronta a lasciarlo andare.

Finito di mangiare, CeCe pagò il conto e tornammo a casa, dove telefonò alla banca per fare il bonifico dell’acconto per l’appartamento. Poi si piazzò davanti al portatile, cominciando a lamentarsi della rete che andava e veniva.

«Vieni ad aiutarmi a scegliere i divani» mi chiamò dal soggiorno mentre riempivo la vasca da bagno di acqua tiepida.

«Adesso mi faccio un bagno» le risposi, chiudendomi dentro. Mi sdraiai nella vasca fino a sommergere orecchie e capelli. Ascoltai il rumore dell’acqua – come nel ventre materno, pensai – e decisi che dovevo andarmene prima di impazzire. Niente di tutto questo era colpa di CeCe e non volevo rifarmela con lei. Le volevo bene. C’era sempre stata per me, ogni giorno della mia vita, ma…

Venti minuti dopo avevo deciso. Andai in soggiorno.

«Fatto un bel bagno?»

«Sì. CeCe…»

«Vieni a vedere che bei divani ho trovato.» Mi fece cenno di avvicinarmi. Obbedii e guardai, senza osservarli veramente.

«Quale ti piace di più?»

«Quello che piace a te. L’arredamento è il tuo campo, non certo il mio.»

«Che ne dici di questo?» disse indicando lo schermo. «Ovviamente dovremo provarlo, perché non deve essere solo bello, ma anche comodo.» Scribacchiò su un pezzo di carta il nome e l’indirizzo del rivenditore. «Potremmo andare domani.»

Feci un respiro profondo. «CeCe, ti dispiacerebbe se tornassi ad Atlantis per un paio di giorni?»

«Se è quello che vuoi, Sia, certamente. Fammi vedere che volo possiamo prendere.»

«In realtà pensavo di andarci da sola. Cioè…» Deglutii, sforzandomi di non fare marcia indietro. «Qui hai molto da fare, adesso, con la casa e tutto il resto, e so che non vedi l’ora di metterti a lavorare ai tuoi progetti.»

«Sì, ma un paio di giorni che vuoi che siano? E se è quello di cui hai bisogno, lo capisco.»

«Davvero» dissi con fermezza. «Penso che preferirei andarci da sola.»

«Perché?» CeCe si girò a guardarmi, con gli occhi a mandorla sgranati per la sorpresa.

«Solo perché… lo voglio. Sì, voglio andare a sedermi nel giardino che Pa’ Salt ha coltivato con il mio aiuto e aprire la mia busta.»

«Capisco. Va bene, d’accordo» disse stringendosi nelle spalle. Sentii una sensazione di gelo calare fra noi, ma stavolta non avrei ceduto. «Vado a letto. Mi fa malissimo la testa» annunciai.

«Ti porto un antidolorifico. Vuoi che ti cerchi il volo?»

«Ne ho già preso uno e, per il volo, te ne sarei grata. Buonanotte.» Mi chinai a baciare mia sorella sui capelli neri e lucenti, dai ricci naturali, sacrificati come sempre in un taglio da maschio. Poi andai nello sgabuzzino che condividevamo e ci ostinavamo a chiamare “camera”.

Il letto era duro e stretto e il materasso sottile. Anche se di famiglia benestante, avevamo entrambe trascorso gli ultimi sei anni a girare il mondo, dormendo dove capitava. Nessuna delle due aveva voluto chiedere soldi a Pa’ Salt, neanche quando eravamo completamente al verde. CeCe in particolare era sempre stata troppo orgogliosa; ecco perché mi sorprendeva che adesso fosse pronta a scialacquare denaro che non poteva che arrivare da lui.

Avrei chiesto a Ma’ se ne sapeva di più, sebbene “discrezione” fosse il suo secondo nome quando si trattava di diffondere informazioni tra noi sorelle.

«Atlantis» mormorai. Libertà…

E quella notte mi addormentai quasi subito.

 

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