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Le rose di Axum: La terza indagine del maggiore Aldo Morosini nell’Africa orientale italiana (Vol.3)

13,00

Febbraio 1936: in piena guerra di Abissinia, nelle saline di Massaua, retrovia del conflitto, viene scoperto il cadavere di un indigeno torturato e sfigurato. Sembra un caso di ordinaria amministrazione: e infatti le autorità coloniali lo liquidano come una banale vendetta fra clan eritrei. Invece l’omicidio dell’ignoto indigeno finirà per intrecciarsi con una torbida vicenda di spionaggio e complotti internazionali che condurrà il maggiore Morosini fino alla mitica città di Axum, capitale di uno dei regni più misteriosi dell’antichità africana. Durante il viaggio il maggiore dovrà anche scortare un gruppo di archeologi tedeschi giunti in Etiopia per recuperare la mummia di Caléb, il più grande fra i re dell’antica civiltà axumita. Ma Morosini scoprirà che dietro la facciata della missione scientifica si celano scopi ben più oscuri e inquietanti. E che i nuovi compagni di avventura non sono ciò che appaiono. Destreggiandosi fra agguati e omicidi, serpenti e scorpioni, agenti segreti e fascinosi fotoreporter in gonnella, predoni abissini e monaci copti, il maggiore ricomporrà i tasselli del mosaico, scoprendo la verità che si cela dietro le «rose di Axum».

 

Informazioni aggiuntive

Editore

Data di pubblicazione

28 gennaio 2021

ISBN

978-8877074898

Lingua

Italiano

Formato

Kindle

Kindle
Copertina flessibile

€ 13,00

COD: 8129 Categorie: , Tag: , Product ID: 20683

Descrizione

I

I corvi di Massaua

I corvi non sbagliano. Hanno la vista acuta e osservano dall’alto ogni piccolo movimento. A parte gli insetti, sono sempre i primi ad arrivare quando scorgono una preda. Ma non ci sono insetti nella piana di Abd el Cadér. Né mosche, né formiche, né scarafaggi. Soltanto sale. Sale a perdita d’occhio. Per secoli questa distesa bianca ha rifornito l’intera Eritrea e i mercanti arabi dello Yemen e dell’Oman, che attraccavano al porto di Massaua per riempire le stive dei loro sambuchi con i preziosi cristalli di cloruro di sodio. Poi, con la colonia italiana, lo sfruttamento si è fatto intensivo: un milione e mezzo di quintali che ogni anno venivano imbarcati dalla banchina Umberto I e prendevano la rotta di India e Giappone.

Anche quel giorno di fine febbraio 1936, i corvi si erano presentati per primi. Venanzio Torricelli, il custode delle Saline Eritree, li aveva notati già alle prime luci dell’alba. Un piccolo stormo, cinque o sei uccelli, che volteggiava alcune centinaia di metri più in là, nel bel mezzo della spianata biancastra.

«Un topo morto», aveva pensato Torricelli di primo acchito.

Senza neppure domandarsi che diavolo ci facesse un topo in una distesa di sale. Un’ora più tardi, quando il sole era ormai alto sui tetti di Massaua e la colonnina di mercurio già sfiorava i trenta gradi, al custode era capitato di gettare di nuovo lo sguardo verso quella direzione. Scoprendo con una certa sorpresa che i corvi s’erano raddoppiati, triplicati.

Di tanto in tanto uno di loro calava in picchiata sul bersaglio, come un pellicano che ha appena avvistato un pesce sotto il pelo dell’acqua. E dopo pochi istanti Venanzio Torricelli lo vedeva risalire verso il cielo con il becco pieno.

«Forse la preda è ancora viva», aveva ragionato il custode, «e a giudicare dal numero di quelle bestiacce, dev’essere anche bella grossa. Un cane ferito, oppure una capretta che si è impantanata nella salina.»

Insomma, per farla breve, aveva preso la doppietta e si era incamminato per andare a vedere. L’idea di abbandonare una povera bestiola ai becchi affilati degli uccellacci gli dava fastidio, così aveva deciso di provare a salvarla. E se anche fosse giunto tardi, il pensiero di sottrarre la colazione a quei pennuti antipatici e voraci gli procurava un sottile piacere.

Quando sono in gruppo i corvi sono tremendi, in grado di spolpare un povero animale mentre è ancora in vita. Quelli di Massaua, poi, sono ancora peggiori dei nostri. Più grandi, più aggressivi, più sfacciati. Capaci di venirti a rubare il cibo dal piatto mentre stai ancora mangiando, senza farsi intimidire dai tuoi urlacci o dal tovagliolo che gli agiti davanti.

«’Ste bestiacce, boia mondo, bisogna spararci per farle scappare», aveva bofonchiato Torricelli mentre si avvicinava al punto in cui lo svolazzare di ali nere era più intenso.

Nel dubbio, tanto per far capire l’andazzo, aveva esploso un paio di colpi nel mucchio, provocando un fuggi fuggi generale. Si era avvicinato a un avvallamento in cui si notava una sagoma scura, ma già a venti metri di distanza si era reso conto che non si trattava di un cane. E nemmeno di una capretta.

È per questo che mi trovavo lì, abbacinato dal sole di Massaua reso ancor più accecante dai riflessi del salgemma. E che sudavo come una fontana, cristonando mentre m’inzaccheravo gli stivali nella fanghiglia salmastra. Perché la colazione dei maledetti corvi di Massaua non era né un cane né una capretta. Era un uomo.

«Santo cielo, signor maggiore! Non ho mai visto un simile scempio.»

Eusebio Barbagallo, maresciallo dei Reali Carabinieri, non era un novellino. Stava nell’Arma da quasi trent’anni e in Africa da dieci. Nel corso della sua carriera ne aveva viste tante di schifezze. Ma quel giorno lo osservai vacillare, allontanandosi con una mano sulla bocca. Persino Tesfaghì, lo scium-basci indigeno abituato ai più crudeli costumi delle tribù della Dancalia e del Bassopiano, appariva turbato. Quanto a me, avrei voluto trovarmi ovunque, ma non lì. Non in quella dannata salina, sotto il sole eritreo, con 35 gradi all’ombra già alle nove del mattino, a osservare il cadavere di un uomo orribilmente seviziato. Perché a ridurre il poveraccio in quello stato non erano stati solo i corvi. Certo, loro gli avevano cavato gli occhi, strappato le orecchie, martoriato il naso e le guance. I segni delle beccate erano ben visibili sul volto del malcapitato e sulla nuca, dove non restava quasi cuoio capelluto.

Ma il bavaglio che gli aveva impedito di chiedere aiuto non era certo opera dei corvi. E neppure le corde che gli avvolgevano mani e piedi, come appurammo dopo averlo estratto dal sepolcro in salgemma in cui era stato seppellito, lasciandogli fuori soltanto la testa. Il cadavere era nudo, ma sembrava ricoperto da una sottile pellicola rossa. Sangue. Secco, incrostato ai granelli di sale.

Il capitano Ragazzoni, l’ufficiale medico che sempre mi assisteva quando c’era da esaminare un morto ammazzato, si accese il toscano e sputò per terra.

«Cristo, Aldo! A questo la morte gliel’hanno fatta sospirare più di un terno al lotto.»

«Che cosa intendi dire, Claudio?»

«Che il poveraccio deve aver benedetto il momento in cui ha esalato l’ultimo respiro. Forse ai corvi non ci ha neanche fatto caso… Vedi tutti questi segni sul corpo? È stato qualcuno che ha lavorato di fino con il coltello: ferite superficiali ma non letali. Non subito, almeno. Probabilmente è morto dissanguato, soffrendo come un cane per il sale che gli bruciava la carne viva.»

«Gesù…»

«Dev’essere stato qualcuno che lo odiava a morte, per infliggergli un simile supplizio.»

«Che lo odiava a morte oppure che voleva lanciare un monito ad altri. Un terribile avvertimento.»

«Chissà? Ma questi sono affari tuoi, caro maggiore. Il mio compito si limita a un esame del cadavere e a stilare un referto sulle cause della morte: lo sbirro sei tu.»

Era un amico, Claudio Ragazzoni. Uno dei pochi che avessi lì a Massaua, anche se prestavo servizio al comando dell’Arma del Bassopiano già da alcuni anni. Un amico vero. Che sotto la scorza di cinico disincantato nascondeva un cuore d’oro. Anche in quel momento, mentre parlava dello sventurato sepolto nella salina come di un banale caso clinico, ero sicuro che fosse interiormente sconvolto come il sottoscritto. Solo che non lo dava a vedere. Come cercavo di fare io, del resto. Un ufficiale dei Reali Carabinieri non è mica una collegiale. Però, nonostante gli sforzi di autocontrollo, sentivo i conati di vomito salirmi fino in gola, così mi allontanai dal corpo sanguinolento e accesi una Macedonia, aspirando il fumo a pieni polmoni.

Prima ancora di ascoltare dall’ufficiale medico i macabri particolari della tortura mortale, mi interessava identificare la vittima. Ma non bisognava essere uno scienziato per capire che non sarebbe stata una passeggiata. I corvi avevano fatto un bel lavoro

sui connotati del poveretto. Di sicuro non era italiano. Quei pochi centimetri di pelle sfuggiti al becco dei corvi e al coltello degli aguzzini erano neri, su questo non c’erano dubbi. Ma non era un gran passo in avanti. Solo in Eritrea vivevano nove etnie diverse, senza contare i mercanti d’origine araba e yemenita e gli abissini del Tigrai, che nonostante il conflitto in corso con l’esercito del Negus Hailé Selassié continuavano a scorrazzare entro i nostri confini.

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