Descrizione
La tempesta
-Ammainate la randa! –tuonò una voce, sovrastando il fragore della tempesta-. Assicurate il trinchetto!
Non ci fu risposta alcuna ma diversi uomini, incuranti delle gigantesche onde che spazzavano il ponte, cominciarono ad arrampicarsi temerariamente sulle sartie per ammainare le vele prima che le raffiche di vento che in quel momento superavano i settanta nodi le danneggiassero o, peggio ancora, distruggessero completamente l’unico albero della nave.
Fra Joan Calabona, contravvenendo agli ordini del capitano, contemplava la scena dal cassero di poppa, alla mercé degli elementi, cercando di non farsi travolgere dall’onda successiva. Tutto considerato, si stava meglio lì sul ponte che nella stiva a sopportare il tanfo pestilenziale di urina mista a vomito.
Ammirava incredulo quella che fino a qualche ora prima gli era apparsa come una superba imbarcazione e che ora si trovava sballottata senza pietà da montagne d’acqua scura che la colpivano da ogni direzione fracassando cime, legno e ossa, e scagliando su quanti si trovavano sul ponte una pioggia sottile che il vento trasformava in spilli appuntiti che ferivano ogni lembo di pelle non protetta. A due passi da lui, ma che potevano benissimo essere due leghe, il capitano Villeneuve strizzava gli occhi nel tentativo di scorgere il resto della flotta al di là dei muri di acqua e spuma, indicando al pilota un punto impossibile con la mano libera, e gridandogli delle istruzioni alle quali l’uomo annuiva senza aver capito nemmeno la metà di quanto detto. Nel frattempo, Joan Calabona, bagnato fino al midollo, restava aggrappato con tutte le sue forze al corrimano, domandandosi in preda al terrore se la volontà del Signore fosse quella di far terminare lì il suo viaggio.
Erano salpati da La Rochelle quasi otto settimane prima, protetti dal buio della notte. Diciotto cocche tra i sessanta e i novanta piedi di lunghezza avevano preso il mare con il loro prezioso carico a riempirne le stive, tanto che perfino le pietre della zavorra erano state rimosse per fare spazio. Ci erano voluti ventidue giorni senza toccare terra per raggiungere le Isole Fortunate, e nella cosiddetta isola Gomera, una delle più occidentali, avevano fatto rifornimento di acqua, frutta e verdura. Venticinque, ventisei o ventisette erano i giorni di navigazione trascorsi da allora, ma che importanza aveva. L’acqua, ormai putrida, da giorni veniva razionata a una sola ciotola al tramonto. La verdura durò una settimana, e perfino la carne essiccata, coperta di vermi, era solo un saporito ricordo. Lo spazio sulla nave riservato alle provviste era così ridotto che avevano spinto l’imbarcazione alla massima velocità possibile e, se Dio non l’avesse impedito mostrandogli la terraferma nei giorni seguenti, sarebbero diventati un equipaggio di fantasmi che navigavano verso l’altro mondo.
Ma queste erano preoccupazioni che aveva avuto ore prima.
-Frate Joan!
Aprì gli occhi e si trovò davanti il volto del nostromo che, a pochi centimetri di distanza e con l’acqua che gli scorreva sulla faccia, gli gridava a pieni polmoni.
-Vada di sotto! –esclamò di nuovo, alzando la voce per sovrastare il ruggito del vento-. È troppo pericoloso qui!
Il frate scosse appena la testa, negando, al che il nostromo rispose con un muto insulto tra i denti e, dopo un attimo di esitazione, si voltò con un’alzata di spalle e tornò ad affrontare la tempesta.
Joan Calabona decise quindi di sedersi sul fasciame e, passando un braccio dietro il candeliere del corrimano, riuscì a intrecciare le mani davanti al petto per pregare. Non era la postura corretta, né il posto adeguato, ma senza alcun dubbio, il momento era perfetto.
A quel punto si accorse che il suo preziosissimo anello, che gli era costato immani sacrifici, gli ballava sul dito. Era dimagrito tanto che doveva legarsi i pantaloni con un pezzo di corda, e contemplava ogni giorno la propria magrezza riflessa nei corpi scheletrici dei suoi compagni di traversata. Tuttavia, scoprire di poter perdere il simbolo che dava un senso alla sua esistenza lo terrorizzò più della tempesta stessa. Con estrema attenzione aprì dunque la piccola sacchetta di cuoio che portava al collo e vi introdusse ciò che identificava come l’ultima speranza dell’Ordine e che, alla fine, per uno di quei cammini imperscrutabili della divina provvidenza, l’aveva portato a trovarsi in quella notte di inizio novembre a pregare per la propria vita nel bel mezzo di un uragano.
Con le palpebre serrate lottava per alienarsi dalla voragine che lo circondava, pregando Dio per la sua anima e per quella degli sfortunati uomini che lottavano per la propria vita in quell’inferno d’acqua e vento. A quel punto udì, o meglio, sentì nelle viscere un terribile crepitio di morte sotto i piedi, e capì che la solida cocca progettata per sopportare le peggiori tempeste del Mare del Nord aveva detto basta e che, ferita a morte, non sarebbe mai giunta a destinazione.
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